Non è stata per me una installazione artistica. Piuttosto un parto.
Un viaggio dal silenzio al suono e dal buio totale alla luce, graduale, e solo per un breve passaggio vivace: come un’anima luminosa che danza veloce per essere finalmente libera e immersa nell’eternità.
I volti prendono vita, con tutta la loro sofferenza palpabile e impercettibilmente colma di mestizia.
E il corpo del Figlio assume un peso concreto nel suo non essere più.
Un peso morto che la madre sorregge piena d’amore, tanto che non lo sente come un peso.
La luce lieve e soffusa, prima del buio totale, ce lo restituisce come un unico corpo d’amore, sia materno che filiale.
Il nero buio prima della fine segna il confine tra la materia e la sacralità della morte che, nella sua tragedia, ci obbliga a guardare oltre.
La prima volta che vidi questa statua ero una bambina, con mio padre. Ricordo che mi stupii e gli dissi che non si poteva esporre una cosa così indefinita, non ci capivo niente. Lui, appassionato d’arte e uomo paziente qual era, me la rivelò, facendomela amare per sempre.
Ho tanto desiderato che avesse potuto godere di tanta bellezza.