Traduzione è poesia — non una poesia qualsiasi, come il rifacimento o la rielaborazione poetica — ma poesia della poesia. Novalis parla forse in questo senso del poeta del poeta.
[Rolf Kloepfer, Die Theorie der literarischen Übersetzung]
Ecco, sempre lì si va a finire. Sì sì, è così, almeno per me. E poi c’è il duro lavoro del traduttore, leggete qui:
La differenza tra la parola giusta e quella sbagliata
è la stessa che passa tra un fanale e una falena.
(Mark Twain)
Come già dissi in più contesti, la traduzione è stata, e a volte ancora è, una palestra formidabile per irrobustire la scrittura. Non è un caso che alcuni traduttori fossero anche poeti e scrittori e/o, viceversa, alcuni scrittori o poeti racimolassero un po’ di soldi traducendo. Uno per tutti, mio autore dell’adolescenza, Cesare Pavese.
E’ davvero un duro lavoro. Ma anche stupendamente affascinante perché ti costringe a diventare quel personaggio, ad assorbire quelle parole, a tal punto da essere in grado di renderle tali senza che si capisca che c’è stato tutto un lavoro d’interpretazione e riscrittura dietro. Non si può spiegare. Provare per credere.
Io ho provato. E ci credo.
Ho lavorato principalmente come interprete e traduttrice dipendente in vari ambiti: nell’agenzia di pubblicità Conquest Europe di Milano ora Red Cell dal mio ritorno da Londra fino al 1991, poi nella filiale italiana di una società controllata della Shaftesbury Plc e successivamente presso la Jakil Spa società di import-export di Milano e a seguire per un breve periodo come project-manager nell’agenzia di traduzione Soget di Milano. I lavori di traduzione editoriale sono stati minori e presenti nel periodo in cui ho lavorato come traduttrice libero-professionista. Ho seguito vari seminari molto utili ed illuminanti organizzati da Isabella Blum.