Ciao Cinzia. Ti invito a presentarti ai nostri lettori.
Come già ho scritto sul mio blog di Myspace e meglio specificherò nel mio personale sito www.wordsinprogress.it che sto realizzando, sono una donna che ama la poesia e la scrittura, ma con uno sguardo aperto all’espressione artistica in genere. Pertanto apprezzo anche la pittura e la fotografia — nelle quali mi diletto — o uno spettacolo teatrale piuttosto che un film d’autore. La meditazione e la preghiera, la musica e la lettura sono per me quotidianamente irrinunciabili, subito dopo la scrittura, ovviamente.
A che età hai cominciato a scrivere?
La poesia nell’infanzia, alle elementari già sottraevo dai cassetti di casa i block notes piccoli perché erano facili da maneggiare e ci stavano in tasca; mi affascinavano con quei fogli quadrettati color crema che giravo dal basso verso l’alto e non mi ricordavano affatto un quaderno di scuola. Alla narrativa ci sono arrivata più tardi, è una passione maturata nel tempo leggendo tantissimo e di tutto. La biblioteca era — ed è — la mia seconda casa, tant’è che a ventidue anni fui per un anno presidente della biblioteca civica di Bernareggio, con responsabilità sia gestionali che culturali. Direi che il concorso letterario che vinsi nel 1993 con il racconto Gita al porto segnò la svolta e da allora non ho più smesso, solo qualche intervallo qua e là e unicamente per cause di forza maggiore.
Cosa ti porta a tramutare in parole scritte i tuoi sentimenti, i tuoi pensieri, il tuo vissuto?
Credo che l’arte in generale sia, oltre che un modo di esprimere se stessi, la risposta al bisogno, più o meno conscio, di esorcizzare il dolore e la morte rivendicando la nostra natura spirituale. Questo non significa che ogni scritto parli necessariamente di questo. Per me scrivere è di fatto, aldilà delle velleità letterarie, un bisogno irrinunciabile che arriva e ti travolge; le parole arrivano dalla pancia e solo dopo raggiungono la mente e il cuore. Posso dare così forma al mio sentire più profondo perché il compito della scrittura è di dare un senso alla vita. Tutto ciò non è facile, e neppure a volte così spontaneo come si potrebbe pensare; è certamente un atto creativo, ma presuppone umiltà e disciplina, come tutte le arti.
Un anno fa hai pubblicato Kairos con Giraldi Editore. Cosa ti ha portato a rendere “noti” i tuoi versi?
La necessità di gridare al mondo un dolore e di ribadire la potenza dei sentimenti. Ritengo che possa essere così per tutti quelli che scrivono versi. Ti senti travolta dalle esperienze della vita e fuori di esse quando ormai puoi guardare, con attenzione e con distacco, la tua gioia e sofferenza oggettivandola nei versi, in una volontà di ricomposizione, risolvendo così il contrasto tra arte e vita.
Cosa provi a distanza di un anno?
Molta serenità e contentezza per gli attestati di stima dei miei lettori e anche di qualche critico. È stato l’inizio di un cammino e, se tornassi indietro, riscriverei tutto esattamente nello stesso modo. A tal punto che non solo continuo a scrivere con regolarità cose nuove, ma sto traducendo questa raccolta già edita in lingua inglese in quanto esistono delle possibilità di poterla pubblicare con un editore anglosassone.
Perché “Kairos”?
Il significato di questa scelta è spiegato, seppur sinteticamente, nell’introduzione del libro stesso. La scelta è caduta su questo titolo perché in una sola parola esprimeva un concetto di qualità del tempo e dell’esperienza in esso vissuta. Kairos [καιρός] è una parola che nell’antica Grecia significava “momento giusto o opportuno” o “tempo di Dio”. Gli antichi greci avevano due parole per definire il tempo, kronos e kairòs. Mentre la prima si riferisce al tempo logico e sequenziale, la seconda significa “un tempo nel mezzo”, un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale “qualcosa” di speciale accade. Ciò che è la cosa “speciale” dipende da chi usa la parola. Pertanto chi la utilizza definisce la cosa, l’essere della cosa. Chi definisce la cosa speciale definisce l’essenza peculiare della cosa stessa. È quindi proprio la parola, la parola medesima che rende comprensibile la natura unica dell’esperienza. Mentre kronos è quantitativo, kairòs ha una valenza qualitativa. Nella lotta tra kairòs e kronos, kairòs è sempre perdente. È con questa perdita che la parola cessa.
Dalle tue poesie si evince che l’amore fa più soffrire che gioire…
Grazie a Dio non è così, anche se penso che tutti noi abbiamo sofferto, almeno una volta, per amore. La poesia nasce dall’adesione alla vita e si risolve sempre in un atto d’amore per la vita. Ma in che modo il poeta, lo scrittore può darci il senso della vita? Parlandoci della sua stessa vita. Pasternak diceva che “il cuore agisce nella sfera del piccolo, ed è grande proprio perché agisce nella sfera del piccolo”. Quindi un poeta non può che tentare di dar forma al piccolo mondo che gli è proprio, e quanto più riesce a renderlo in quel che ha di particolare, di singolare, d’irripetibile e in definitiva di unico, tanto più potrà sperare d’interessare gli altri.
Quale delle poesie di Kairos racchiude più dolore e quale più felicità?
Difficile scelta. Sai, è come dover scegliere un figlio piuttosto che un altro. Vorrei che fossero i lettori a decidere ma, se proprio devo, ritengo che l’acme del dolore sia racchiuso in Giorno d’inverno, la felicità dell’amore è ben espressa in Cento volte, mentre quella per la vita è stata suggerita spontaneamente dall’editore per la quarta di copertina.
Quale invece piace di più a Cinzia Luigia. E perché?
È quella che apre la raccolta poetica, cioè Seme. Per tante ragioni e le più disparate. Perché ricordo vividamente e con esattezza quando la scrissi, perché fu scritta subito così e non fu variata, perché arrivò come una folgorazione. In ultimo, perché tutto sommato racchiude tutto il senso del percorso poetico di Kairos.
Pensi che nella poesia sia più importante lo stile o il contenuto? Meglio: quando scrivi una poesia punti più sulla forma o sul contenuto?
In una poesia sono importanti entrambi, non saprei dirti se in ugual misura. Personalmente m’interpella di più il contenuto, nel senso che sono convinta che l’emozione esistenziale sia l’essenza della poesia; la forma, lo stile e la metrica vengono perfezionati successivamente, con un eterogeneo ma molto preciso lavoro di cesello e limatura che tutti coloro che scrivono versi ben conoscono. Lo studio universitario della letteratura inglese mi ha portato ad una conoscenza teorica importante, ma soprattutto la traduzione è stata una palestra fondamentale in questo senso.
Quali sono i tuoi progetti letterari attuali?
Il mio romanzo Sogno amaranto è già pronto per la pubblicazione. A maggio ho finalmente ultimato l’ultima stesura e sarà verosimilmente pubblicato nel 2010. Lo stesso dicasi della mia seconda silloge Dies Natalis che nel 2009 è entrata nella rosa dei quattro finalisti del Premio Pensieri d’inchiostro indetto dall’editore Giulio Perrone, e poi — last, but not least — la versione inglese di Kairos. Nell’attesa che tutto ciò avvenga, sto alacremente scrivendo il mio secondo romanzo del quale non parlerò ora, semplicemente perché è in corso d’opera.
Stai trovando difficoltà nel reperire un editore? Cosa pensi dell’editoria italiana moderna?
Non è stato troppo difficile avere dei riscontri positivi, devo dire. La cosa difficile è scegliere in maniera adeguata e dignitosa. Il mercato editoriale in Italia è variegato e per uno scrittore esordiente è come affrontare una vera avventura nella giungla, nel senso che le indicazioni sono scarse e ingannevoli. Inoltre, ti assicuro che non mancano i tranelli. Per contro, in veste di collaboratrice di comitati editoriali di alcune case editrici, posso anche capire gli editori sommersi da manoscritti di ogni tipo e fattura. Non ti nascondo che spesso mi stupisco di alcuni miei compagni di scrittura che non leggono mai nulla degli altri esordienti. Se tutti gli scrittori esordienti e sommersi e i loro amici leggessero regolarmente almeno qualche libro pubblicato dagli altri colleghi, presumibilmente l’editoria italiana non avrebbe tutte queste sfaccettature penose; ci sarebbe più confronto dialettico e scambio culturale, il mercato editoriale degli esordienti acquisterebbe più forza e magari le cose cambierebbero in meglio. Noi saremmo più solidali e compatti e magari gli editori verrebbero incontro a noi e non saremmo solo noi a doverci piegare a questo mercato editoriale capestro. C’è forse anche un po’ di egocentrismo tra i nuovi autori? È una domanda che mi pongo ed anche un appello che sto lanciando.
L’Italia pullula di concorsi letterari. Credi che siano realmente utili?
Realmente utili è troppo, utili è sufficiente, direi. Non sono contraria a prescindere: come per gli editori anche qui va fatta una scelta attenta, e del resto molto personale. I concorsi rappresentano sicuramente un trampolino di lancio per i neofiti della poesia e della narrativa. Totalmente diverso è il discorso per i premi letterari notissimi, dunque di dominio delle grandi case editrici, con una logica di mercato totalmente differente.
Credi che la poesia sia in crisi oggi? Se sì, perché?
La poesia di per sé non è in crisi e non lo sarà mai, semplicemente perché la poesia è connaturata con l’animo umano, quindi in quanto tale non potrà scomparire. In questo senso ho molto apprezzato il film Poesia che mi guardi di Marina Spada che ho piacevolmente visto a Milano lo scorso novembre. Esso non è solo un ricordo della iniquamente dimenticata poetessa milanese Antonia Pozzi, ma è ottimamente attualizzato nel presente e nella mia città natale. Ecco che si possono cogliere molti spunti di riflessione sulla necessità della poesia non solo scritta, ma anche letta, nella nostra realtà e quotidianità moderna. Certo è in crisi la lettura, e quindi la vendita di libri di poesia, dato che circola di tutto sia in libreria che su internet e perché, in questo mondo di lustrini e di paillettes, è più trendy trascorrere il tempo in modo leggero e superficiale.
Se tu avessi il triste incarico di scegliere di mantenere in vita la Prosa o la Poesia chi salveresti?
La Poesia, senza ombra di dubbio.
Perché?
Semplicemente perché è un canto dell’anima che non tramonta mai; è una chiamata di Dio che ti dice di usare le parole del cuore per testimoniare l’immortalità della nostra anima. Anche nella narrativa esistono i capolavori e le pagine immortali, ma la prosa può essere dominio di tanti, se non di tutti. La poesia è una chiamata. È elezione di pochi per il bene di ognuno, anche di quelli che non la leggono mai.
Quali poeti credi di dover ringraziare per averti invaso con la loro poesia e quindi anche, per cosi dire, influenzato?
Ci sono tre dimensioni: quelli dell’infanzia e adolescenza, quelli inglesi e quelli dell’età adulta. Quelli della prima gioventù — principalmente Ungaretti, Cardarelli, Quasimodo e Montale — hanno tracciato il cammino dell’introspezione e dell’amore per il verso. I secondi, quelli inglesi, — tra tutti Shakespeare, W. H. Auden, e il contemporaneo nobel irlandese Seamus Heaney — sono stati materia di studio, ma anche riflessione profonda su un altro linguaggio con il quale confrontarsi. In ultimo, quelli dell’età adulta che, devo dire, sono principalmente donne; per par condicio citerò solo un’italiana contemporanea, purtroppo scomparsa recentemente: Alda Merini, accompagnata dalle ottocentesche sorelle inglesi Brontë, vissute nella solitaria e selvaggia brughiera dello Yorkshire che tanto amo, avendoci trascorso tempo e quindi conosciuto persone care, ai tempi dell’università.
Alcuni dicono “La poesia fa soffrire. Scrivere è soffrire.” Ci sono delle volte in cui dici “Non scriverò mai più”?
È difficile vivificare la materia, ma questo è il compito dello scrittore (e degli artisti in genere); dunque esiste la frustrazione della pagina bianca, questo sì. E la sofferenza di non riuscire ad esprimere esattamente il mio pensiero, rendere credibile, anzi necessario, quanto raccontato, sia esso in poesia o in prosa. Far vivere il sentimento che produce le mie parole: ecco la grande difficoltà che può produrre sofferenza. C’è poi la sofferenza della scelta di scrivere, il non venir compresi, se non addirittura osteggiati: in questo senso la via della scrittura è una scelta dolorosa che comporta un prezzo da pagare per il coraggio necessario e per la responsabilità verso se stessi e il mondo. Ma la scrittura, poetica e non, di per sé non fa soffrire, semmai il contrario, perché egregiamente salva l’anima.
Vorresti quindi che tua figlia diventasse una poetessa o una scrittrice o preferiresti che fosse più razionale, con una mentalità scientifica, magari che diventasse una professoressa di matematica?
Ahimè o no, mia figlia ha già una mentalità scientifica e una propensione per la matematica molto spiccata, e questo è un dato oggettivo con tanto di voti in pagella che lo dimostrano. Detto ciò, anche se diventasse una professoressa di matematica, ci potrebbe stare la poesia, sia scritta che letta. A mo’ d’esempio mi sovviene il poeta William Carlos Williams, di professione medico e affermato poeta, così come il sopracitato film Poesia che mi guardi nel quale un componente del gruppo H5N1 (un gruppo di poeti di strada che vive a Pavia e opera dal 2005) è uno studente di medicina ed espone un pensiero sull’utilità della poesia anche e soprattutto per un medico. Quindi, essendo la poesia una condizione dell’anima, può contagiare chiunque, indipendentemente dalla professione svolta. Ti ricordi il grande Troisi ne Il postino? “La poesia non è di chi la scrive, la poesia è di chi gli serve!”.
Credi che ci saranno dei poeti che saranno considerati CLASSICI tra qualche secolo? Tu per esempio?
Non scherziamo con i classici. Essi non perdono nulla della loro validità nel tempo per la naturalezza dell’espressione che li rende eterni. Non sono reperti archeologici da museo ma pietre vive perché, se continuiamo a leggerli, significa che sono libri eterni. Esiste una selezione naturale anche in letteratura che determina un classico. E dunque, per quanto riguarda me, concluderei dicendoti: ai posteri l’ardua sentenza.
Chi è in definitiva Cinzia Luigia Cavallaro?
Una donna in cammino che, con l’animo già immerso nell’eternità — esattamente come tutti noi — ogni momento scruta il proprio cuore e quello altrui e si domanda il senso di questa nostra breve passeggiata terrena e nel frattempo, per ingannare l’attesa, prende appunti.
Per concludere, posso chiederti qual è la poesia che più ami?
Sono tantissime, sai. Ma ritengo a dir poco doveroso citare quella che mi folgorò a dodici anni e che fu il mio battesimo poetico: si tratta dell’ermetico Ungaretti e della sua Mattina del 1917. Di fatto è stata una vera e propria illuminazione che non mi ha ancora abbandonata. Per ricordare l’eternità della poesia, permettimi di concludere con una lirica il cui primo verso è il titolo di un’antologia poetica dell’editore Aletti dove è stata inserita la mia poesia Seme, di cui ti ho parlato poc’anzi. Ecco, voglio salutarti dedicando e te e a chi leggerà questa intervista la lirica Eterno del mio amato Ungaretti:
Tra un fiore colto e l’altro donato
l’inesprimibile nulla.
E a te il mio ringraziamento per le domande che mi hai posto e per la tua disponibilità.